“55 Secondi” – Il futuro non è scritto

“Lascia che ti racconti storie dei mesi dell’anno, di fantasmi e cuori infranti, di terrore e desiderio. Lascia che ti racconti di bevute fino a tardi e telefoni senza risposta, di buone azioni e brutti giorni, di distruzioni e ricostruzioni, di uomini morti che camminano e padri perduti, di piccole fanciulle francesi a Miami, di lupi sinceri e di come parlano alle ragazze. Ci sono storie nelle storie, sussurrate nelle orecchie nella quiete della notte, gridate sopra il boato del giorno, e recitate tra amanti e nemici, stranieri e amici. Ma tutte, tutte sono cose fragili, fatte unendo solo 26 lettere sistemate e risistemate ancora e ancora per formare racconti e immagini che, se glie lo permetti, abbaglieranno la tua immaginazione e ti commuoveranno fin nel profondo della tua anima.” (Neil Gaiman) 

 

La fotografia ha il potere di fermare il tempo. Alcune immagini, più di altre, possono catturare un momento ed immortalarlo. Questo è il caso della copertina del “Jornal da Tarde” del 6 luglio 1982, che per me è la prima pagina più rimarchevole del giornalismo brasiliano. Tutto il sentimento di un popolo catturato dalle lenti di Reginaldo Manente. C’è un’altra foto, questa volta un salto di gioia, un uomo a librarsi in aria. Due momenti diversi, di tristezza e di gioia, i due estremi dello spettro delle emozioni umane, che meriterebbero esserci nella “capsula del tempo”, il messaggio nella bottiglia che Carl Sagan ha inviato nello spazio a bordo della Voyager, insieme a saluti in 55 lingue, ai suoni della natura, Bach, Beethoven, Mozart e “Johnny B. Goode” per spiegare ad altre vite di altri mondi chi siamo, di che cosa siamo fatti e tutta la sintesi di ciò che è un“essere umano”.

 

La storia della foto della prima pagina tutti noi conosciamo. In verità, ho evitato leggere e guardare il video che mostra l’incontro tra il ragazzino della foto e Paolo Rossi. No, grazie, perché non ho bisogno che nessuno mi spieghi cosa ho sentito quel giorno. Dell’altra foto, dell’uomo a librarsi in aria, non sapevo nulla. Forse, per questa ragione, un libro su questo soggetto mi ha sembrato così affascinante.

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“55 Secondi” racconta la storia di quella foto. La storia di cose fragili, di sogni distrutti e di cuori infranti. La storia dell’aspettativa di un momento particolare di vita, la fine dell’innocenza, il primo e più doloroso cambio di pelle che significa crescere. Io potrei riassumere dicendo che è la storia di come  due ragazzini romani – e tutta una città – ha vissuto la partita più importante della loro vita, ma questa sarebbe una visione redutiva di cosa rappresenta questo libro. È la storia di un 30 maggio che ha deffinito i 30 seguenti. Perché il 30 maggio 1984 non è soltanto il giorno in cui Roma ha giocatto la sua prima finale della Coppa dei Campioni, in un’epoca in che soltanto i campioni partecipavano del torneo.  Perché il 30 maggio non è una partita, non è un punto di partenza, ma un punto d’arrivo. E la grande bellezza del libro non è quella di raccontare una partita, ma l’attesa, il modo com’è stata vissuta, vista e percepita da questi due ragazzi, uno di 11 e l’altro di 14 anni. Questo libro è una resa dei conti con la fine dell’infanzia, è un debito da pagare con se stesso e con tutti gli altri che non sono in grado di usare le parole per descrivere in modo così semplice e commosso ciò che quella immagine rappresenta. È un libro fatto per i figli. È un legato. 

 

Tonino Cagnucci e Paolo Castellani sono i due bambini narratori di questa storia. Tra la filosofia e il calcio,  Cagnucci ha scelto di fare del calcio la sua poesia. Castellani si è avviato per la strada dell’arte. Si tratta di uno studioso, un collezionista e la sua Mona Lisa è la maglia che Agostino Di Bartolomei ha vestito in quel 30 maggio. Agostino Di Bartolomei è l’uomo che vola in quella foto. È l’uomo che ha scelto un altro 30 maggio, dieci anni dopo, per lasciare il mondo. Questo libro è, in un certo modo, necessario per spiegare l’altro 30 maggio e per fare un altro omaggio a Di Bartolomei.

 

Non ha importanza, se il calcio ti piace o meno, questo è un libro che dovrebbe essere letto senza pregiudizi, perché oltre che un libro sul calcio, ne parla della vita. Questo viaggio per la memoryland, è una passeggiata mano nella mano con questi due ragazzini per una Roma sconosciuta, tutta dipinta di giallo e rosso, chiassosa e piena di chimera, che respirava un profumo di speranza e sognava lo stesso sogno per tutti. È anche il ritratto di una generazione che ha letto troppo, ha sentito molta musica, ha visto e ha sentito troppo, e adesso prova a spiegare a quelli che ce l’hanno tutto in un click, com’era vivere tanto avendo quasi niente. Tutta l’emozione di sentire una partita di calcio alla radio, di usare più l’immaginazione che altri sensi. L’ultima generazione analogica della storia che ha visto Blade Runner ed è uscita dal cinema pensando che uno scanner fotografico era una cosa quasi tanto impossibile come il teletrasporto. La generazione che ha vissuto ogni piccola gioia sapendo che, in fondo, di piccola non ne avevano nulla. “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi”, voi della generazione del iPhone, delle SmartTVs, dell’internet a fibra ottica, delle reti sociali, voi non fate la minima idea. E com’era meraviglioso immaginare, sognare, desiderare qualcosa. Non esiste una vita senza musica e ogni capitolo è permeato dalla colonna sonora del 1983-84 – tranne dei The Clash perché loro sono eterni e sempre attuali – The Cure, Lotus Eaters, The Police, U2, The Smiths, Wham ed Antonello Venditti. La musica che descriveva il mondo, la vita e l’amore che noi, umani, avremmo un giorno sentiti. 

 

È impossibile passare per la vita senza perdere qualcosa, senza cicatrici.  C’è bisogno di fare i conti col passato, per andare avanti, anche se, a volte, sembri difficile trovare la forza per farlo. Il modo in cui Cagnucci e Castellani hanno trovato per raccontar un’altra volta il miglior, il più grande, il più incredibile, il più eclatante e il momento più terrificante della loro infanzia è una conversazione che attraversa i nove mesi della stagione romanista nella Coppa dei Campioni, senza lasciare di rendere omaggio all’avversario che distruggeva il sogno. Il libro inizia e finisce con una rispettosa riverenza al Liverpool, raccontando la finale della Champions League del 1977, tra Liverpool e Borussia Mönchengladbach, giocata a Roma, e il cerchio si chiude con “You’ll Never Walk Alone”, la canzone che il Liverpool ha tenuto per se e si libra sopra i cancelli di Anfield. In questo libro, in nessun momento, ma soprattutto in quella primavera indimenticabile del 1984, camminiamo da soli. La primavera prima dell’inverno del  scontento, prima dell’addio al divino Falcão, prima della tempesta che si avvicina e porterà via  il Barão e il Capitano a Milano, come sognava Prospero. “Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita.”. E sogni di bambini, anche se delicati, sono dificile da uccidere. Dobbiamo parlare delle cose che ci fanno male perché 30 anni è un lungo tempo per trattenere il respiro. È necessario tornare a respirare, aprire le finestre e i cassetti, liberare i fantasmi, rinnovare i sogni, aver fiducia nel cuore e iniziare a scrivere una nuova storia.

 

Il calcio è una metafora della vita, delle battaglie quotidiane, dell’amore perso e riacquistato, delle piccole vittorie e delle grandi sconfitte.  No. Il calcio è la vita. È perderne qualcuna e vincerne altre. È la prossima partita. È l’attesa di qualcosa che ci fa sentire grande, anche se solo per 90 minuti. È la memoria che non si cancella mai. Il calcio è l’amore. Per una squadra, per i suoi colori, per la sua storia fatta di lacrime di gioia e di tristezza. Una storia fatta dagli uomini che non saranno mai comuni nel ricordo di un bambino. Il calcio è un’eredità che passa di generazione in generazione ed è stampata nel DNA. Il calcio sono quei 55 secondi sospesi nel tempo per 30 anni e per sempre. 55 secondi in cui tutto sembrava possibile. 55 secondi in cui la Roma era di nuovo il centro dell’universo, in cima del mondo, la più grande in Europa. Chi questo non capisce, mai capirà.

 

Lilian Trigo ama la fotografia, il cinema, la letteratura, la musica e il calcio. Non esattamente in questo ordine. Non ha paura di scarafaggio e crede che la miglior difesa è il distacco. Scrive con la mano destra ma calcia col piede sinistro.

*Publicado originalmente no Portale Eh Già

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